Un piccolo fagotto in spalla, con dentro giusto l’essenziale, e via, in giro per il mondo. Questo era il mio ideale di vita a sei anni. Ora ho qualche anno in più, ma l’idea è rimasta: l’idea del viaggio come scoperta, avventura e libertà. Così, da qualche annetto, ho iniziato a prendere i primi aerei, e ad atterrare in posti lontani, nuovi e meravigliosi. Finita l’università, grazie al mio lavoro e alle strane coincidenze della vita, i viaggi sono diventati sempre più numerosi e sempre più lunghi. E spesso, dall’altra parte del mondo, mi ha aiutato molto leggere le esperienze di chi era passato di là prima di me.

E allora eccomi qui, a raccontarvi le mie piccole avventure, per darvi qualche consiglio, e per cercare di “contaminarvi” col mio entusiasmo e convincervi che vale davvero la pena, di salire su quell’aereo.

lunedì 15 dicembre 2014

DA BANGKOK A SIEM REAP SENZA AEREO



Sono due i modi per arrivare da Bangkok alla famosissima Angkor Wat, in Cambogia: un’oretta di aereo, o, in alternativa, attraversando il confine via terra. Questa seconda opzione è decisamente più impegnativa:  richiede una giornata intera per raggiungere Siem Reap, la città più vicina ad Angkor Wat. Leggendo qua e là su internet, sembra un viaggio davvero particolare e avventuroso, di quelli che mi piacciono tanto…e allora, perché no? Niente aereo, zaino in spalla e via, si parte.
Il viaggio via terra prevede diverse tappe: un primo spostamento in pullman di circa quattro ore, l’attraversamento del confine per ottenere il visto, un altro tratto in pullman e un taxi. Parto la mattina presto dalla stazione autobus di Ekkamai (da qui parte un bus ogni due ore, che fa una fermata intermedia all’aereoporto di Suvarnabhumi, mentre da Mo Chit è diretto e ne parte uno ogni mezz’ora). Arrivo al binario indicato sul biglietto: parcheggiato, c’è un mini bus, ma davvero mini mini…sarà dura passare quattro ore rannicchiata lì dentro, ma del resto, l’ho voluta la bicicletta? Quindi mi metto l’anima in pace, mi siedo e aspetto. Ad un certo punto si avvicina un conducente, che mi prende il biglietto e mi porta ad un altro bus (molto più grande per fortuna); parla solo in thailandese ma continua a ripetere “Cambodia, Cambodia” , quindi salgo, sperando di aver preso il pullman giusto, e appena mi siedo realizzo che le quattro ore di viaggio (che diventano cinque e mezzo) saranno accompagnate da un penetrante odore di pipì.


Il viaggio è lungo e c’è parecchio traffico, ma dopo le prime ore, quando usciamo dalla città, il panorama diventa molto bello. Distese verdi interrotte solo da palme e banani, capanne e case sparse lungo la strada in mezzo al nulla, dove i bambini giocano liberi per i campi a piedi nudi; mucche magrissime e, ad un certo punto, passa anche un elefante. Di tanto in tanto il pullman si ferma lungo la strada a fermate improvvisate, per dare passaggi a quelli che sembrano amici dell’autista; sale anche un militare, proprio nel momento in cui sono in piedi che frugo nello zaino per cercare uno spuntino. Dice qualcosa di incomprensibile in tono molto serio, per un attimo mi fissa (un attimo lunghissimo, in cui faccio in tempo a pensare ad ogni catastrofe possibile, oddio mi farà la multa perché sono in piedi, non ho la cintura, e se mi porta via le patatine?), dopodichè gira i tacchi e se ne va, con mio grande sollievo.
Dopo circa cinque ore, il bus entra in un’aera piena di bancarelle, un enorme mercato attraversato dai binari di una ferrovia: siamo arrivati al confine, ed è qui che comincia la vera avventura.


Appena il bus si ferma, viene letteralmente circondato: non facciamo in tempo a scendere che veniamo avvicinati dai proprietari dei banchi e da bambini che cercando di venderci di tutto o che ci dicono di seguirli. Non è facilissimo capire dove bisogna andare per il visto, alcuni indicando una direzione, altri tutt’altra; vedo un gruppo di persone che si incammina deciso e scelgo di seguirli. Attraversiamo i binari e dopo un po’ iniziano ad apparire le prime indicazioni, fino ad arrivare ad un primo blocco per il controllo dei passaporti. 


Da lì, continuano le indicazioni per i turisti che devono ottenere il visto: cammino lungo un percorso molto affollato, affiancata da carri, motorini, venditori ambulanti e qualche turista. Arrivo ad un secondo controllo, non capisco esattamente di cosa si tratta, credo sia per l’influenza dengue: mi fanno sedere ad un tavolo e compilo un modulo, la ragazza davanti a me indossa una mascherina su bocca e naso e mi misura non so cosa (la febbre forse?) con un piccolo macchinario che mi mette davanti alla gola. Di lì si va avanti, ancora; c’è molta confusione, intravedo in lontananza un edificio e uomini in divisa militare. E’ li che rilasciano il visto. Compilo un altro modulo, consegno il passaporto e pago 35 dollari (conviene arrivare con i dollari e non con i bath, altrimenti col cambio alzano le cifre). In realtà c’è un cartello dove c’è scritto che il visto turistico ne costa solo 30, ma non mi sembra tanto il caso di stare a discutere…qui c’è poca gente, quindi aspetto solo qualche minuto, e mi viene riconsegnato il mio passaporto con il tanto sudato visto per entrare in Cambogia.


Supero la linea di confine e mi ritrovo in mezzo a una strada dove sorgono da entrambi i lati enormi casinò. I casinò sono vietati sia in Thailandia che in Cambogia; ma qui, a Poipet, al confine, siamo in terra di nessuno, e tutto è permesso. Non so bene dove andare, la strada è molto affollata, carretti, camion e motorette sfrecciano veloci trasportando un po’ di tutto. Mi guardo intorno affascinata e proseguo dritta, cercando di capire quale sarà la tappa successiva.


Intravedo in lontananza una specie di ufficio, e dalla folla che c’è capisco che è lì che devo andare. Arrivo in una stanzetta minuscola e affollatissima, compilo l’ennesimo foglio e mi metto in coda ad aspettare. Ci sono tre sportelli dove ricontrollano il passaporto e convalidano il visto, facendoti una foto e prendendo le impronte digitali. Il processo è abbastanza lungo e le code procedono lentissime; ed io, chiaramente, scelgo la fila che va più lenta in assoluto (lo ammetto, sono stata tentata di fare la classica mossa all’italiana e di spostarmi nella fila più veloce, ma sono riuscita a resistere). Finalmente arriva il mio turno ed esco sfinita annaspando per il caldo. Si avvicina un funzionario del governo che mi dice di aspettare: sta arrivando un bus gratuito, che mi porterà ad un’altra stazione dei pullman (che se tutto va bene, per oggi dovrebbe essere l’ultima), e poi da lì, con un altro bus o un taxi, in due ore sarò a Siem Reap, tappa finale del viaggio.


Il bus è pienissimo e percorre uno stradone in mezzo ai campi. Arrivati alla stazione, le possibilità sono due: aspettare un pullman, che ci mette altre tre ore (aiutoooooo) per la cifra di nove dollari; oppure trovare qualcuno che divida un taxi, che ne costa in totale 48, ma che ci mette un’ora in meno (e soprattutto, parte subito!). Non ci penso due volte: trovo in fretta due ragazzi cinesi con cui partire e via, di nuovo per strada. Il taxi percorre un lungo, lunghissimo stradone sempre dritto; ma sul serio sempre dritto, in due ore non c’è nemmeno l’accenno di una curva! Di nuovo, attraversiamo distese verdi e piccoli villaggi arroccati sul ciglio della strada, percorsa da carretti, tuk tuk, mucche e tantissime biciclette. La stanchezza comincia a farsi sentire; ma riesco a resistere sveglia per (quasi) tutto il viaggio, con il naso incollato al finestrino ad osservare tutto quello che scorre davanti a me.
Dopo due ore abbondanti, il taxi si ferma su un piazzale. L’autista scende dalla macchina e arrivano tre o quattro persone che ci propongono alberghi fatiscenti, ristoranti e cercano di organizzarci i giri in tuk tuk per i giorni successivi. Ho un attimo di sconforto: il taxi avrebbe dovuto portarci direttamente all’albergo, non so se sono in grado di resistere ad un’altra tappa, su chissà quale mezzo. Scendiamo dalla macchina per discutere della cosa: niente da fare, il taxi si ferma lì, ma compreso nel prezzo c’è un servizio tuk tuk che ci porterà all’albergo. Dovrebbe davvero essere l’ultimo spostamento; monto sul sedile traballante del tuk tuk, guidato da mister Path, che indossa una sgargiante camicia rosa e ci accoglie con risate e battiti di mani.


Viaggiare in tuk tuk mi risveglia immediatamente e per un po’ cancella la stanchezza accumulata. Percorriamo delle strade meravigliose, circondati solo da biciclette e da gruppetti di bambini in divisa che tornano a casa dopo la scuola. Sono bellissimi: si rincorrono, alcuni sono scalzi, mi guardando incuriositi e mi salutano sorridenti. 


Mister Path inizia però a tentennare: quando si ferma a chiedere indicazioni ad un bambino che avrà sì e no otto anni, capisco che non ha la più vaga idea di dove stia andando. Nuovo momento di sconforto: siamo nel bel mezzo di una stradina sterrata chissà dove, e mister Path non parla una parola di inglese. Inizia a fermare tutti quelli che passano; finalmente qualcuno riconosce il nome dell’albergo e gli indica la via.
Quando arrivo all’albergo è buio, sono le sei e mezza, e sono davvero sfinita. Saluto Mister Path, che sarà la nostra guida l’indomani nella visita di Angkor Wat. Non mi reggo in piedi. Ripercorro mentalmente le strade che ho attraversato, ripenso ai posti affascinanti che ho visto, ai loschi individui al confine, alle risate dei bambini sulle biciclette. Ho scoperto un pezzettino di mondo in più;  mi sento arricchita, e felice.











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